C’è chi dice, con una provocazione, che alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti dovrebbero poter votare tutti i cittadini del mondo. Questo perché le decisioni che prende il presidente della maggiore superpotenza economica e politica non possono che influenzare il resto del globo. Vale ancora di più quest’anno, dato che i candidati hanno visioni del mondo radicalmente diverse.
Il candidato repubblicano
Come sapete, la politica americana è monopolizzata da due grandi partiti, il partito repubblicano e quello democratico. Questi due partiti, nei mesi precedenti alle elezioni, organizzano delle primarie regolate per legge per scegliere i loro candidati alla Casa Bianca. In questa occasione, le primarie repubblicane sono state molto partecipate. C’era Jeb Bush, figlio e fratello di due ex presidenti; c’era Marco Rubio, il candidato di origine latino-americana; c’era Ted Cruz, un senatore su posizioni molto conservatrici e c’era Donald Trump, che a sorpresa ha stravinto la corsa repubblicana. Ma chi è Donald Trump?
Donald Trump è un imprenditore immobiliare celebre per i suoi hotel, casinò e grattacieli sparsi per l’America, come la Trump Tower a Manhattan dove ha presentato la sua candidatura. È diventato conosciuto al grande pubblico anche per essere l’organizzatore di Miss Usa e Miss Universo e il protagonista del reality show The Apprentice, dove ricopre il ruolo del giudice esigente e severo di alcuni aspiranti imprenditori. Inoltre, ha fatto numerose apparizioni sia nel cinema che in televisione. Di Trump si devono menzionare anche alcune grane con la giustizia e diverse bancherotte, oltre ad alcune recenti indagini sui finanziamenti della fondazione benefica intitolata a suo nome, che sarebbero stati usati per scopi personali e per pagare un procuratore al fine di far chiudere un’indagine a suo carico.
La candidatura di Donald Trump è stata inizialmente presa poco sul serio, sia per il personaggio, sia perché altre volte aveva detto di voler correre per la Casa Bianca per poi ritirarsi. Ma presto si è capito che non stava affatto scherzando. Fin da subito ha attirato le attenzioni dei media per le sue posizioni estremiste sull’immigrazione, le tasse e il terrorismo, in base alle quali viene spesso definito un populista. Ripetendo lo slogan “make America great again” (“fare l’America di nuovo grande”) ha promesso di costruire un muro lungo la frontiera sud e di farlo pagare al Messico, ha chiamato i messicani stupratori, ha detto di voler cacciare tutte le persone di religione islamica dal paese, si è preso gioco di un giornalista disabile, ha insultato la famiglia di un soldato morto in guerra e ha detto che Obama è il fondatore dell’Isis. Ciononostante, i suoi consensi non hanno fatto che aumentare grazie alle sue promesse di combattere l’immigrazione, usare le maniere forti contro il terrorismo e cambiare i trattati sul libero scambio, per ridare ai lavoratori americani le occupazioni perse con la globalizzazione.
Insomma, la sua è una figura controversa, che una buona parte della popolazione vede in modo sfavorevole e divide il suo stesso partito. Tuttavia, è riuscito a raccogliere molti sostenitori essendosi presentato come un candidato anti-establishment e portatore di cambiamento, l’unico a dire le cose come stanno e a battersi contro il politicamente corretto. Le fasce demografiche fra cui Trump proprio non riesce a sfondare sono quelle dei neri e dei latino-americani e anche fra le donne e i giovani fatica ad affermarsi. Il suo bacino di voti è composto prevalentemente dai maschi bianchi della classe lavoratrice, che negli ultimi anni hanno perso il lavoro o si sono impoveriti a causa, secondo loro, della globalizzazione e dell’immigrazione.
La candidata democratica
Dall’altra parte, le primarie democratiche sono state invece una corsa a due e molto meno scontata. A sfidare Hillary Clinton si è fatto avanti un anonimo senatore ultrasettantenne che si definisce addirittura socialista, praticamente un tabù negli Stati Uniti. Ma spiegando di definirsi così per le sue posizioni a favore di una democrazia di tipo scandinavo, con uno stato sociale avanzato, l’università gratuita e la sanità per tutti, è riuscito a riscuotere l’entusiasmo di molti elettori, specie di giovane età. Bernie Sanders (questo il suo nome) si è proposto come un candidato di rinnovamento, impegnato a combattere contro lo strapotere di Wall Street e contro le disuguaglianze economiche. Dopo aver ottenuto molti più voti di quanti gli osservatori avevano previsto, ha però poi dovuto ammettere la sconfitta per mano dell’avversaria, Hillary Clinton, la prima donna candidata alla Casa Bianca dai due maggiori partiti americani.
Hillary Rodham Clinton nasce nel 1947 a Chicago in una famiglia di tendenze conservatrici. Compie studi in scienze politiche e in legge e si interessa di politica fin dagli anni dell’università a Yale, dove incontra il futuro marito Bill. Alterna il lavoro da avvocato impegnato nel sociale con l’attività politica portata avanti insieme al marito, che diventa prima governatore dello stato dell’Arkansas e poi presidente degli Stati Uniti nel 1993. Da First Lady, Hillary Clinton svolge un ruolo molto importante nel supportare l’attività del consorte e, quando lui conclude il suo mandato, si candida e conquista il seggio da senatore per lo stato di New York. Nel 2008 si presenta alle primarie democratiche ma perde contro Barack Obama, di cui diventa poi segretario di stato, cioè l’equivalente americano del nostro ministro degli esteri.
In questa veste, è coinvolta nei due principali scandali che oggi le vengono rinfacciati dai repubblicani. Il primo è l’attacco all’ambasciata americana a Bengazi in Libia nel 2012, finito con due morti tra cui l’ambasciatore Usa, per cui viene accusata di non aver garantito le necessarie misure di sicurezza. Il secondo è lo scandalo, scoppiato più recentemente, delle e-mail. In questo caso, la Clinton è biasimata per aver usato un account di posta elettronica privato per il lavoro, comprese le comunicazioni top segret. Nonostante ciò fosse legale, quando gli è stato chiesto di consegnare le mail per poterle archiviare come da prassi, lei ha detto di avere anche la posta personale su quell’account così, prima di consegnare il suo contenuto, ha eliminato circa la metà delle mail.
Benché questi non siano esattamente scandali che fanno perdere un’elezione, specie se confrontati con quelli dell’avversario, hanno intaccato l’immagine che la Clinton tenta di dare di sé, come di una candidata competente e affidabile. Inoltre, le reticenze e in certi casi le bugie che hanno accompagnato questi episodi hanno rafforzato la convinzione di una parte dell’opinione pubblica americana che la Clinton sia una persona calcolatrice, disposta a mentire e a cambiare le sue idee a seconda della convenienza. I decenni che ha passato sotto i riflettori hanno inoltre contribuito a logorare la sua immagine e a farla apparire agli occhi degli elettori come una rappresentante dell’establishment e dei poteri forti, anche a causa della rete di relazioni costruita con la Fondazione Clinton. Inoltre, come ha ammesso lei stessa, non è esattamente un animale politico, in pubblico appare fredda e distaccata e questo le impedisce di far breccia nei cuori di molti potenziali elettori.
La corsa alla Casa Bianca
Se Donald Trump sembra un candidato troppo estremista per poter vincere, la sua debolezza è compensata da quella di Hillary Clinton. Secondo un recente sondaggio del Washington Post, entrambi i contendenti attirano un giudizio negativo da parte del 60% della popolazione. E questa è l’unica cosa che hanno in comune. In un sistema politico dove di solito i candidati, essendo soltanto due, tendono a convergere al centro, questa volta si scontrano due personaggi molto diversi e due visioni del mondo radicalmente contrapposte. Da una parte abbiamo una figura affidabile e competente e una potenziale prima donna presidente, ma che viene percepita come l’espressione di una classe dirigente che non riesce a risolvere i problemi. Dall’altra, troviamo un uomo che dice di battersi contro un sistema truccato e promette di fare l’America di nuovo grande, ma che usa toni violenti, non rispetta le minoranze e apprezza leader autoritari come il russo Putin.
Per fare delle previsioni sull’esito di queste elezioni, bisogna ricordare che il voto per la presidenza degli Stati Uniti non è diretto, ma avviene su base statale. Ciascuno dei 50 stati americani elegge i propri grandi elettori, il cui numero è calcolato in proporzione alla loro popolazione. Saranno poi loro a votare per il presidente secondo l’indicazione di voto data dallo stato di appartenenza. Nella quasi totalità dei casi, il candidato che vince in uno stato si assicura così tutti i suoi grandi elettori. Il totale è 538 grandi elettori, ne servono quindi 270 per vincere.
Bisogna anche sapere che un grande numero di stati vota sempre per l’uno o per l’altro partito. Per esempio, la California e gli stati del nord-est sono tradizionalmente democratici, mentre gli stati del profondo sud come il Texas votano repubblicano. Ci sono poi i “swing states”, cioè gli stati in bilico, quelli che di fatto decidono chi vince e chi perde. Sono una decina e alcuni cambiano nel corso del tempo. Quelli da tenere d’occhio quest’anno, perché sono tradizionalmente in bilico e perché regalano al vincitore un consistente numero di grandi elettori, sono la Florida, l’Ohio e la Pennsylvania.
Ma l’8 novembre non sarà eletto soltanto il 45° presidente degli Stati Uniti. I cittadini americani saranno chiamati a scegliere anche i membri della camera e di una parte del senato. È importante ricordarlo perché in America il presidente può dover convivere con un congresso di un diverso colore politico. Tutt’oggi il democratico Obama deve collaborare con un congresso dove entrambe le camere sono a maggioranza repubblicana. Dopo l’8 novembre, secondo le previsioni, la camera rimarrà saldamente in mano ai repubblicani, mentre i democratici hanno qualche chance di conquistare il senato.