Non abbiamo ancora finito di parlare del referendum in Catalogna che dobbiamo già cominciare ad occuparci di quello in Lombardia e Veneto del prossimo 22 ottobre. A scanso di equivoci, bisogna dire che i due casi sono molto diversi: quello in Catalogna è stato un referendum illegale (almeno in base alla legge spagnola) che mirava all’indipendenza per la regione di Barcellona, mentre i referendum consultivi di Lombardia e Veneto sono perfettamente legali e aspirano a garantire alle due regioni del Nord Italia più autonomia dallo stato centrale, in termini di aree di competenza ma soprattutto in termini di gestione delle risorse fiscali.
I quesiti che saranno sottoposti agli elettori delle due regioni sono molto diversi tra loro ma la sostanza è la stessa. In caso di vittoria del sì, le giunte regionali invocheranno l’attivazione dell’articolo 116 della Costituzione italiana. Questo articolo è stato modificato con la riforma del 2001, che ha inserito la possibilità per le regioni che lo desiderano di aprire una trattativa con lo stato centrale per ottenere più poteri, in modo da avvicinarsi (senza comunque eguagliare) le regioni a statuto speciale.
L’articolo 116 rimanda ad un elenco di materie (dal commercio alla salute, dal trasporto pubblico all’ambiente, dall’istruzione alle banche) che al momento sono quasi tutte di competenza condivisa fra lo stato e le regioni e che possono essere in teoria trasferite in toto a queste ultime. Ma la pratica può essere diversa dalla teoria perché lo stato centrale non è affatto tenuto a soddisfare le richieste delle regioni e non è per nulla detto che il negoziato vada in porto. Tanto più che questo tentativo è già stato fatto nel 2007 dalla Lombardia ma non portò da nessuna parte, benché dall’anno successivo ci fosse un governo di centrodestra sia a Roma che a Milano. Per questo motivo, ora le due regioni del Nord tentano la strada del referendum, in modo da inviare un forte messaggio politico agli interlocutori romani.

Le ragioni del referendum

Veniamo quindi alle motivazioni dietro alla scelta di indire il referendum e alle critiche a riguardo. Il referendum è stato fortemente voluto dai governatori leghisti Maroni e Zaia, anche per marcare la distanza con il nuovo corso nazional-sovranista della Lega di Salvini. Il loro intento è quello di tenere le tasse pagate dai cittadini lombardi e veneti il più possibile all’interno delle regioni. In particolare, la campagna referendaria del sì gira attorno ad un dato, il cosiddetto residuo fiscale. Il residuo fiscale è la differenza tra le tasse degli abitanti di una regione che vanno allo stato e quello che torna indietro in termini di spesa. Lo si può interpretare come una somma che viene trasferita dalle regioni più ricche a quelle più povere. Secondo un rapporto della Cgia di Mestre del 2015 (che si riferisce a dati del 2012 ma che si suppone non siano cambiati più di tanto), il residuo fiscale della Lombardia ammonta a 53,9 miliardi di euro (circa 5.500 euro ad abitante), mentre quello del Veneto corrisponde a 18,2 miliardi (3.700 e rotti euro a persona). Queste cifre corrispondono a circa il 15% del Pil lombardo e al 12% di quello veneto. Il presidente della Lombardia Maroni ha affermato che con questo referendum non mira tanto al trasferimento di competenze, quanto al mantenimento di almeno la metà del residuo fiscale all’interno dei confini regionali. A chi ribadisce l’importanza della solidarietà nazionale, i sostenitori del sì rispondo che un Nord più forte porterebbe benefici a tutta l’Italia. Il governatore lombardo ha detto al Foglio che “far ‘correre’ il Nord, non può che giovare anche al resto del Paese. Se la ‘locomotiva’ continua a viaggiare a scartamento ridotto, gli altri ‘vagoni’ di certo non se ne avvantaggiano. E poi bisogna smettere di presentare l’autonomia come un ‘danno’ o un ‘pericolo’ per il Sud. E’ ormai chiaro a tutti che il sistema centralista dell’assistenzialismo produce solo danni”.

Le ragioni dei contrari

Non sono mancate però voci critiche verso il referendum. I maggiormente contrari riaffermano l’importanza della solidarietà nazionale, sia dal punto di vista etico sia da quello economico. Infatti, se l’economia meridionale fosse privata dei fondi che ottiene oggi, i consumatori del Sud avrebbero meno soldi per acquistare i prodotti provenienti dal Nord, creando problemi anche per le imprese settentrionali. In altre parole, il Nord è così prospero anche perché è parte dell’Italia. Negli anni molti investimenti pubblici sono arrivati nelle regioni settentrionali perché si sapeva che avrebbero beneficiato l’intero paese.
Altri critici affermano che si tratta di un referendum inutile e costoso: le cifre precise non si conoscono ma si parla di qualche decina di milioni di euro per ciascuna regione. In Lombardia per esempio, 3 milioni di euro sono stati spesi soltanto per la campagna promozionale. L’inutilità invece dipenderebbe dal fatto che non è necessario un referendum per avviare la procedura prevista dall’articolo 116 della Costituzione. Infatti, lo scorso agosto la giunta dell’Emilia-Romagna ha fatto partire lo stesso iter senza passare da un referendum, ma concordandolo con istituzioni e associazioni locali, sindacati e imprese.
Infine, alcuni critici fanno notare come le regioni negli ultimi anni non abbiano dato un’ottima prova di sé nel gestire i fondi pubblici, a partire dagli scandali dei rimborsi ai gruppi politici che hanno coinvolto quasi tutti i consigli regionali del paese, per arrivare alle opere pubbliche come la Brebemi e la Pedemontana in Lombardia che hanno i conti tutt’altro che in ordine.

Le posizioni dei partiti

Vediamo ora come si schierano le varie forze politiche riguardo al referendum.
Il centrodestra è per il sì, specie la Lega Nord che ha fortemente voluto questo voto. L’unico partito del centrodestra con una posizione non chiara è Fratelli d’Italia, la cui leader Giorgia Meloni ha invitato all’astensione nonostante il suo partito abbiamo votato a favore della consultazione in consiglio regionale.
Anche il Movimento 5 Stelle è a favore del sì. In Lombardia i pentastellati sono anche gli autori del quesito su cui si esprimeranno gli elettori.
Nel centrosinistra le posizioni sono più variegate. Alla sinistra del Pd, solo Rifondazione comunista è per il no, mentre Articolo 1 (Mdp) è per l’astensione. Ma è nel Pd che le cose si fanno più complicate: mentre il Partito Democratico del Veneto voterà sì, quello lombardo darà libertà di voto, dato che è diviso al suo interno: mentre i suoi principali dirigenti propendono per l’astensione, i sindaci Pd dei capoluoghi lombardi (tranne il primo cittadino di Pavia) voteranno sì, a partire da Beppe Sala e Giorgio Gori.

Il voto elettronico in Lombardia

C’è un ultimo aspetto che ci rimane da trattare: il fatto che per la prima volta in Italia si voterà con il voto elettronico. Ciò accadrà solo in Lombardia, mentre in Veneto si è optato per il metodo tradizionale con scheda e matita. Innanzitutto, c’è da chiarire che voto elettronico non significa che ognuno possa votare a casa propria dal pc o dallo smartphone, ma bisognerà comunque recarsi alle urne dove, invece della tradizionale scheda cartacea, sarà possibile esprimere la propria preferenza su una specie di tablet.
La regione ne ha acquistati 24 mila per le 9200 sezioni elettorali lombarde per una spesa totale (che comprende anche il software e i tecnici che supporteranno il personale dei seggi) di 23 milioni di euro. Dal momento che molti hanno protestato per l’ingente costo di questo sistema di voto, il presidente lombardo Maroni ha dichiarato che, una volta concluso il referendum, i tablet saranno lasciati in comodato gratuito alle scuole per le attività didattiche. Tuttavia molti rimangono scettici a riguardo, dato che i tablet che saranno usati per il voto hanno caratteristiche molto diverse da quelle dei normali tablet a cui siamo abituati.
Alcune proteste si sono sollevate anche sulla società che ha vinto l’appalto, la Smartmatic, di proprietà venezuelana. Oltre ad essere sospettata di avere legami non chiari con il governo del paese sudamericano, i suoi sistemi sono stati usati perlopiù in paesi in via di sviluppo. Alcune democrazie avanzate li hanno utilizzati soltanto per elezioni di carattere locale, come nella regione belga delle Fiandre nel 2012. In seguito alla consultazione, il governo fiammingo si è rifiutato di pagare una parte del compenso dovuto alla società, per i quasi 2000 incidenti che si sono verificati durante le operazioni di voto, come alcuni casi in cui gli elettori hanno potuto votare due volte premendo velocemente lo schermo. C’è da aspettarsi però che questi problemi siano stati risolti.

Informazioni pratiche

Infine, ecco alcune informazioni pratiche sul referendum.
I seggi saranno aperti domenica 22 ottobre, dalle 7 alle 23. In contemporanea, nella provincia di Belluno, si voterà anche per una maggiore autonomia provinciale.
Per votare, è necessario portare con sé un documento di riconoscimento valido. Non serve invece la tessera elettorale, se non per sapere la sezione in cui recarsi.
Possono votare tutti i cittadini italiani residenti nelle due regioni. Non è previsto né il voto all’estero o fuori sede, né un rimborso per chi vuole tornare a votare.
Formalmente, entrambi i referendum sono consultivi. In Lombardia non è previsto nessun quorum (cioè un numero minimo di votanti), mentre in Veneto se non si raggiungerà una partecipazione di almeno il 50% degli aventi diritto, il consiglio regionale non sarà tenuto a prendere in considerazione la votazione.

 

 

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