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Con l’emergenza coronavirus ancora in atto, il dibattito politico si è concentrato giustamente su quello. Tra un tweet e l’altro però si è tornati a parlare anche di cose astruse come gli eurobond e il famigerato Mes. E non a caso. L’isolamento richiesto dalla lotta al virus ci ha costretti a rallentare di molto tutta l’economia e ci ha fatto sprofondare in una crisi economica. Ma differenza del 2008, quando la crisi ci ha colto alla sprovvista e le prime misure per contrastarla sono arrivate dopo troppo tempo, soprattutto in Europa, stavolta sembra che la politica abbia capito che serve fare qualcosa subito.
Il governo italiano ha messo in campo a marzo misure per circa 20 miliardi d’euro, più 550 miliardi di garanzie per i prestiti alle imprese, mentre a giorni è atteso un intervento ancora più decisivo nell’orbita dei 50 miliardi. Secondo le stesse stime del governo, questo porterà il deficit dello stato, cioè la differenza tra uscite ed entrate, al 10,4% del Pil (nel 2019, era dell’1,6 per dire). Ciò farà esplodere il debito pubblico, passando dal 134,8% del Pil nel 2019 al 155,7% nel 2020.
Questo significa che, se da una parte lo stato perde introiti perché lavorando di meno i cittadini pagano meno tasse, dall’altra gli è richiesto uno sforzo economico maggiore, cioè più uscite, per aiutare chi è in difficoltà e far ripartire l’economia il più presto possibile. Davanti a questa situazione, è opinione diffusa che l’Italia non ce la possa fare da sola e abbia bisogno di un aiuto da parte dell’Europa. Il come farsi aiutare però è oggetto di dibattito. Gli strumenti di cui più si parla sono due: il Mes e gli eurobond, che qualcuno ha rinominato per l’occasione “coronabond”.
Per capire cosa è il Mes dobbiamo tornare un po’ indietro nel tempo. Nel 2011-2012 la crisi economica cominciò a creare problemi finanziari ad alcuni stati dell’Eurozona, ossia quei paesi dell’Unione Europea che adottano la moneta unica. Dal momento che i paesi dell’euro hanno una banca centrale in comune, ogni stato non può decidere da sé di mettersi a stampare più moneta e questo spinse i mercati a dubitare che questi potessero ripagare i loro ingenti debiti pubblici senza l’ancora di salvezza di creare soldi per farlo. Ciò portò in alto i tassi di interesse che alcuni stati come Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Cipro e Irlanda dovevano pagare sui loro titoli di stato per rifornirsi di capitali, fino a renderli quasi insostenibili. L’Europa realizzò che se uno di questi paesi fosse crollato, avrebbe portato con sé tutto il continente. Si decise quindi di costruire un fondo salva-stati, che diventò poi il Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità). Con un capitale di 700 miliardi versato in quote da tutti i paesi della zona euro, il Mes può correre in soccorso dei paesi in difficoltà fornendogli dei prestiti a tassi vantaggiosi. L’ha fatto con tutti i paesi citati tranne l’Italia. Questi aiuti però non sono senza condizioni, anzi. Lo stato che attiva il Mes deve firmare un memorandum d’intesa con la famigerata troika: Commissione europea, Bce e, se entra nell’accordo, Fmi. Questo accordo prevede una serie dettagliata di riforme che il paese deve mettere in atto e dei limiti di bilancio che deve rispettare.
Gli effetti più estremi di questo meccanismo si possono vedere in Grecia. Lì i governi avevano truccato i conti pubblici per anni e, quando la cosa si seppe, nessuno volle più prestare soldi allo stato ellenico e ciò lo spinse sull’orlo della bancarotta. Gli aiuti del fondo salva-stati arrivarono per salvare sì la Grecia, ma anche le banche di tutto il continente che avevano in pancia i suoi titoli, i quali sarebbero presto diventati spazzatura. In cambio dell’assistenza finanziaria, alla Grecia furono richieste ampie e profonde riforme che si tradussero in tagli allo stato sociale, gli ospedali, alle scuole, ai sussidi per gli strati più deboli della popolazione. È questo il motivo per cui molti oggi vedono il Mes come fumo negli occhi. Temono infatti che, se l’Italia avesse mai bisogno di aderirvi, perderebbe sovranità, dovendo accettare decisioni prese altrove.
Al posto del Mes molti in Italia preferirebbero parlare di eurobond, che però non riscuotono lo stesso successo in altri paesi europei. Nei piani di chi li propone, gli eurobond dovrebbero essere una specie di titoli di stato non emessi da un singolo paese ma dall’Unione Europea nel suo complesso. I paesi membri dell’Ue si indebiterebbero tutti insieme e, questo è il sottotesto, i soldi andrebbero a chi ne ha più bisogno, i paesi del Sud Europa. E questo ci porta alla frattura che si è creata nel nostro continente dal momento in cui si è cominciato a dover correre in soccorso di alcuni paesi membri con difficoltà economiche: quella fra i paesi del Nord e i paesi del Sud dell’Europa. Con i primi che non vogliono indebitarsi per salvare i secondi, considerati inefficienti, spreconi e corrotti, e i secondi che si sentono danneggiati dalla moneta unica e chiedono l’aiuto e la solidarietà europea. Sono due posizioni contrapposte che hanno entrambe torti e ragioni. L’unico modo di sanare il conflitto è quello di trovare un compromesso e i primi passi in questa direzione sono stati fatti alcuni giorni fa, su spinta dell’emergenza in corso a causa del coronavirus.
Bei, Mes e Sure: in tre acronimi sono queste le misure per 540 miliardi decise dall’Eurogruppo, ossia la riunione dei ministri dell’economia dell’eurozona. La Bei è la Banca Europea degli Investimenti, che sarà incaricata di reperire fondi sui mercati per aiutare le imprese europee. Il Sure, invece, è una primissima e limitata forma embrionale di eurobond: gli stati membri forniranno alla Commissione Europea fino a 25 miliardi di garanzie, che essa userà per emettere titoli e raccogliere fondi per finanziare la cassa integrazione dei paesi in difficoltà, a cui saranno fatti dei prestiti a lungo termine. Infine, sono state introdotte delle modifiche al Mes, che permetteranno agli stati di chiedere prestiti per un totale di 240 miliardi (36 per l’Italia) senza condizioni, tranne quella di usare i soldi solo per le spese sanitarie dirette e indirette. Per il nostro paese, accedere a questi finanziamenti farebbe risparmiare quattrini, perché essi avrebbero dei tassi di interesse più bassi di quelli che paghiamo sui titoli di stato italiani. Tuttavia, l’Italia e gli altri paesi del Sud Europa difficilmente chiederanno di ricorrere al Mes per una serie di ragioni. Innanzitutto, per una questione di principio: per tutta la trattativa i paesi del Sud hanno spinto per gli eurobond e attivare il Mes significherebbe accettare che una maggiore integrazione europea passi di fatto da un debito contratto coi paesi del Nord. In secondo luogo, non è ancora chiarissimo fino a che punto il Mes sia senza condizioni; al momento c’è solo qualche riga di annuncio, ancora non ci sono i dettagli tecnici. Infine, chiedendo un prestito al Mes, sorgerebbe un problema di reputazione, sia nei confronti dei mercati, che potrebbero cominciare a pensare che i paesi del Sud Europa fatichino a ripagare i loro debiti, sia nei confronti degli avversari politici, che accuserebbero chi sta al governo di cedere ulteriore sovranità all’Europa.
Insomma, nonostante le novità introdotte, probabilmente il Mes non verrà utilizzato. Ma se il Mes esce di scena, gli eurobond potrebbero entrarci. Prima l’Eurogruppo e poi il Consiglio Europeo dei capi di stato e di governo di tutti i paesi Ue hanno previsto l’istituzione di un fondo europeo per la ripresa, da finanziare con “strumenti innovativi”, tra cui potrebbero esserci proprio gli eurobond. Ma le trattative sul fondo prenderanno settimane e forse mesi, quindi dovremo aspettare un po’ per sapere se si concretizzerà in questa forma. Ciò che conta è che, anche se è stata necessaria una gravissima emergenza come quella del coronavirus e sebbene lo stia facendo a piccoli passi, l’Europa ha capito che per funzionare ha bisogno di integrarsi di più e avere maggiore solidarietà al suo interno. Sperando che questo basti a superare la difficile fase che stiamo attraversando.