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VIDEO SULLA CRISI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3
Nell’ultimo video abbiamo parlato della crisi economica del 2008. Iniziata come crisi finanziaria, ha presto colpito l’economia reale, causando una recessione in quasi tutti i paesi del mondo e portando la disoccupazione a livelli astronomici. Già dal 2010-2011, però, le principali economie del mondo stanno assistendo ad una ripresa. Chi è ancora alle prese con un’economia bloccata è l’eurozona, l’insieme dei paesi che hanno adottato l’euro.
Presto si è capito che la zona euro non poteva reagire in modo compatto alla crisi. L’alto debito di alcuni paesi cominciò a sembrare privo di garanzie di essere ripagato, dato che quegli stati non avevano più una sovranità monetaria e l’eurozona non era abbastanza integrata per coprire i paesi in difficoltà.
Un gruppo di stati europei, che avevano attraversato i primi anni di crisi senza forti sconvolgimenti, videro i titoli del loro debito pubblico essere scossi dalla speculazione e dai timori che essi non potessero più essere rimborsati. Lo spread, cioè il differenziale tra il rendimento di quei titoli e quelli dello stato più virtuoso, la Germania, continuava a crescere, rendendo più costoso per questi stati fare nuovi debiti. L’elenco di questi paesi è riassunto dall’acronimo “Piigs” (“maiali”, in inglese): Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna.
Il primo di loro a finire sotto il giogo della speculazione è stato la Grecia. Nel 2009, il governo appena eletto fu costretto a rivedere al rialzo la stima del deficit del bilancio statale, triplicandola, poiché il precedente esecutivo aveva falsificato i conti pubblici. Sui mercati si scatenò il panico. Le agenzie di rating, il cui compito è di fornire giudizi sui titoli, declassarono più volte quelli ellenici, fino ad etichettarli come spazzatura. Per scongiurare il rischio insolvenza, che si faceva sempre più reale, nel maggio 2010 fu varato un piano di aiuti da 110 miliardi di euro da parte della cosiddetta “troika”, l’insieme di Unione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale. In cambio, la Grecia avrebbe dovuto avviare un piano di forti tagli alla spesa pubblica allo scopo di mettere in sicurezza il bilancio dello stato. Ma non bastò: negli anni successivi furono necessarie diverse ristrutturazioni del debito e un nuovo piano di salvataggio da 130 miliardi. Intanto, poco prima del G20 del 2011, il premier Papandreou aveva annunciato un referendum sull’accordo con la troika ma, dopo l’incontro dei leader mondiali, egli si dimise, lasciando il posto al governo tecnico di Lucas Papademos, ex membro della Bce.
Insieme al primo piano d’aiuti per la Grecia, la troika decise di costituire l’Efsf, un fondo per i paesi dell’eurozona in difficoltà. Mai scelta fu più saggia. Infatti, il contagio raggiunse altri paesi. Dopo essere stati fatti oggetto dell’attenzione della speculazione internazionale, sia l’Irlanda che il Portogallo ebbero bisogno di attingere a quei fondi, per 85 e 80 miliardi di euro rispettivamente. Anche Spagna e Italia sono finite nel mirino dei mercati finanziari. Entrambi i paesi videro i loro spread schizzare alle stelle. I loro governi si trovarono costretti a dimettersi nel novembre 2011. In Spagna si decise di andare ad elezioni anticipate, invece in Italia nacque il governo tecnico di Mario Monti, ex commissario europeo.
Se in un primo momento lo spread sembrò scendere, tra la primavera e l’estate del 2012, riprese la sua salita, segnalando crescenti timori dei mercati sulla tenuta delle economie dell’eurozona. A luglio, il presidente Mario Draghi annunciò che la Bce avrebbe fatto qualsiasi cosa necessaria per preservare la moneta unica. Questa dichiarazione sancì un principio già affermato dai fatti: la Banca Centrale Europea aveva messo in campo diverse misure non convenzionali in difesa dell’euro, dall’acquisto dei titoli degli stati sul mercato secondario per prolungati periodi di tempo, che fece calare lo spread, al drastico ribassamento dei tassi di interesse che ha immesso nel mercato molta liquidità, nella speranza che potesse favorire i prestiti alle imprese e incentivare gli investimenti. Queste misure insieme alla trasformazione del fondo salva-stati in un meccanismo permanente hanno a poco a poco ridotto la pressione speculativa sull’eurozona.
Nonostante la turbolenza finanziaria sull’area dell’euro si sia dissolta, le diverse economie fanno ancora molta fatica a riprendersi, anzi la recessione non è ancora terminata. Nel prossimo video, analizzeremo la ricetta adottata nel Vecchio Continente per voltare pagina, cioè la cosiddetta austerità.
VIDEO SULLA CRISI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3
Da qualche anno, parole come crisi, disoccupazione, spread e default sono entrate nel vocabolario di tutti i giorni. Tutti noi conosciamo almeno qualcuno che ha perso il lavoro o ne sta cercando uno invano. La generazione che rischia di essere colpita di più è quella dei giovani: quasi uno su due è alla ricerca di un’occupazione. Il futuro sembra più che mai tetro.
Cerchiamo allora di capire come è nata questa crisi, a cosa è dovuta e cosa è stato fatto per risollevare le sorti della nostra economia.
Tutte le crisi economiche iniziano con lo scoppio di una bolla speculativa. Infatti, a volte, capita che i prezzi di un bene comincino a salire costantemente, alimentati dall’aspettativa che salgano ancora, e raggiungano livelli superiori al valore reale di quel bene. Poi all’improvviso ci si accorge che è tutta aria fritta e il valore del bene precipita di colpo. Si dice così che la bolla è “scoppiata”. Nel nostro caso, nel 2007 negli Stati Uniti, è la bolla immobiliare a deflagrare.
Il mondo usciva da un ventennio di rigogliosa crescita economica. I soldi giravano facilmente, grazie ai ridotti tassi di interesse. Inoltre, da tempo gli stati stavano portando avanti un processo di deregulation: con l’idea che troppe regole fossero nocive al sistema finanziario, molte furono cancellate, anche quelle scritte dopo le precedenti crisi. I diversi governi allentarono le briglie alla finanza che iniziò a inventare strumenti speculativi sempre più nuovi e complessi, come i derivati. In questi titoli tossici, venivano incorporati i mutui immobiliari che le banche concedevano a destra e a manca, anche a soggetti che non si potevano permettere di ripagarli. Titoli che venivano poi immessi sul mercato.
Questo schema dei cosiddetti mutui subprime resse fintanto che le banche centrali tenevano basso il costo del denaro ma, quando i rubinetti sono stati chiusi, il sistema è saltato. I prezzi delle case sono precipitati. Com’era prevedibile, molti non sono più riusciti a ripagare i loro mutui, determinando un’ondata di pignoramenti e grossi ammanchi nei bilanci delle banche. Un terremoto ha quindi travolto buona parte degli istituti finanziari, non solo quelli che avevano in pancia questi mutui, ma anche gli altri. Tutte le organizzazioni finanziarie hanno cominciato a chiedersi quanti titoli tossici avessero le altre nei loro bilanci e, non fidandosi più, hanno smesso di prestarsi soldi a vicenda. Le arterie del credito si sono bloccate. Una crisi si allarga proprio quando la fiducia sui mercati, che è il bene più prezioso, viene meno.
Molti istituti hanno dichiarato bancarotta, come il colosso Lehman Brothers, il cui fallimento è il più grande della storia americana. Altri sono stati nazionalizzati, accorpati o messi in sicurezza grazie all’intervento pubblico. Il piano di salvataggio varato dall’amministrazione Bush ammontava a 770 miliardi di dollari, poi decuplicati negli anni. Anche le banche europee sono state travolte, buona parte dei paesi del Vecchio Continente hanno avviato delle nazionalizzazioni, specie nel Regno Unito, in Francia e in Germania. I diversi governi hanno erogato aiuti per 1.240 miliardi di euro.
Ma la crisi non è rimasta circoscritta al solo settore finanziario, ben presto si è allargata all’economia reale. Stop degli investimenti, calo della produzione, aumento della disoccupazione, arresto dei consumi: questi sono solo alcuni degli effetti della recessione che ha colpito la maggior parte dei paesi del mondo tra il 2008 e il 2009, la peggiore crisi economica dopo quella del ‘29. Nel biennio successivo, 2010-2011, si sono intravisti i primi segnali della ripresa, in realtà più nelle economie emergenti che in quelle avanzate. Segnali che si sono però accentuati nel 2012 in tutti i paesi colpiti dalla crisi, meno che quelli dell’eurozona. Nel prossimo video parleremo proprio della prosecuzione della crisi in alcuni dei paesi che hanno adottato l’euro.
In nessun paese al mondo si parla così tanto di sistemi elettorali come in Italia. Da quando è stato varato il cosiddetto Porcellum e soprattutto da quando la Consulta l’ha di fatto soppresso perché incostituzionale, si sostiene da più parti la necessità di una riforma. La discussione su questo tema può sembrare un po’ tecnica e astrusa ma il sistema elettorale scelto per un’elezione influisce non poco sui suoi risultati e sull’assetto del sistema dei partiti di un paese. Ma cos’è di preciso un sistema elettorale? Fra quali alternative possiamo sceglierne uno?
Il sistema elettorale di un parlamento (o di un altro organo elettivo) è il complesso di regole e procedure che convertono i voti espressi in seggi.
Il territorio della nazione viene diviso in circoscrizioni, detti anche collegi in certi casi. In ciascuno di essi, i partiti presentano uno o più candidati, fra i quali gli elettori residenti in quella circoscrizione possono esprimere il loro voto.
I modelli di sistema elettorale sono numerosissimi, quasi ogni paese ne ha uno diverso, ma possiamo distinguerli in due grandi categorie: i sistemi maggioritari e i sistemi proporzionali.
In un sistema maggioritario, il territorio viene diviso in collegi uninominali: ciò significa che ognuno di essi esprime un solo posto in parlamento. Ogni partito presenta un unico candidato e colui che raggiunge la maggioranza dei voti ottiene il seggio. Con il metodo plurality, è sufficiente prendere più voti di ciascuno degli altri candidati, ossia raggiungere la maggioranza relativa; con il metodo majority, è necessario ottenere la metà più uno dei voti, quindi la maggioranza assoluta, in caso contrario si procede ad un secondo turno a cui accedono i primi due candidati o quelli che hanno superato una certa soglia.
In un sistema proporzionale, invece, il territorio è diviso in circoscrizioni plurinominali: ogni lista presenta più candidati. I seggi vengono assegnati ai diversi partiti in base alla percentuale di voti ottenuti, secondo un principio di proporzionalità. Al fine di far scegliere gli eletti agli elettori, a volte, è previsto lo strumento delle preferenze, con cui è possibile indicare sulla scheda il nome di uno dei candidati della lista. Naturalmente, viene eletto chi ottiene più preferenze.
Il principale pregio di un sistema proporzionale è di assicurare la piena rappresentatività di tutte le forze politiche, anche di quelle minori, rispecchiando perfettamente il loro peso nell’elettorato. Il vantaggio, invece, di un sistema maggioritario è di garantire al partito o alla coalizione vincitori una solida maggioranza parlamentare, capace di dare al governo una certa stabilità.
Tuttavia, nella realtà, è difficile trovare un sistema puro, o solo maggioritario o solo proporzionale. Spesso vengono adottati dei sistemi misti. Per esempio, è possibile correggere un sistema proporzionale affinché produca alcuni effetti maggioritari, attraverso diversi meccanismi. Uno di questi è la soglia di sbarramento, che impedisce alle liste che non abbiano raggiunto una certa percentuale di voti di entrare in parlamento. Un altro è il premio di maggioranza, che conferisce al partito o alla coalizione più votati più seggi di quelli che gli spetterebbero con un riparto proporzionale. Infine, se vengono previste circoscrizioni particolarmente piccole, l’effetto proporzionale si attenua, venendo premiati i partiti maggiori.
Vediamo ora quali sono i sistemi elettorali adottati dai principali paesi del mondo.
Il sistema più antico è quello utilizzato dagli Stati Uniti d’America e dal Regno Unito. Infatti, in quasi tutti gli stati americani e nella Camera dei Comuni inglese, è in vigore un modello maggioritario ad un unico turno in collegi uninominali: il territorio nazionale è diviso in tante circoscrizioni quanti sono i membri del parlamento da eleggere, il candidato che vince con la maggioranza relativa ottiene il seggio.
Questo sistema è stato adottato anche in Francia, con la differenza che se, al primo turno, nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta e i voti di un quarto degli aventi diritto, si procede ad un secondo turno, a cui accedono soltanto i candidati che hanno superato la soglia del 12,5%, calcolata sugli aventi diritto al voto.
Una via di mezzo tra questi due modelli maggioritari è quella percorsa dall’Australia, dove viene applicato il voto alternativo. Nei collegi uninominali, gli elettori non devono scegliere il loro candidato con una ics, ma devono ordinare i vari nominativi con dei numeri, secondo le loro preferenze. Se il candidato che ha ottenuto più primi posti non raggiunge la maggioranza assoluta, si eliminano le schede di chi ha messo al primo posto il nome con minor consensi e le sue seconde preferenze vengono distribuite fra tutti gli altri. Se nemmeno così nessun candidato riesce ad ottenere il 50%+1 dei voti, vengono ridistribuite le terze preferenze e così via. Questo sistema non favorisce tanto la vittoria del partito preferito, ma di quello meno osteggiato.
Ritornando in Europa, per la Camera spagnola vige un modello proporzionale che però ha degli effetti fortemente maggioritari. Infatti, le circoscrizioni sono molto piccole, eleggono in media 7 deputati, e ciò penalizza molto i piccoli partiti, ad eccezione di quelli regionali, tant’è che la soglia di sbarramento del 3% indicata dalla legge elettorale nella pratica risulta essere molto più alta.
In Germania, invece, gli elettori ricevono due schede. Con una scelgono il partito preferito, che presenta una propria lista bloccata di candidati. Con l’altra, eleggono un candidato del loro territorio in un collegio uninominale a turno unico. La ripartizione dei seggi in parlamento viene però fatta in base alla prima scheda, quindi in modo proporzionale, fra tutte le liste che abbiano ottenuto almeno il 5% oppure tre collegi. I seggi vengono distribuiti a tutti i vincitori dei collegi uninominali più ad alcuni di quelli presenti nelle liste bloccate.
Dei rari casi di sistemi proporzionali puri si riscontrano nei Paesi Bassi e in Israele, dove è presente anche un unico collegio nazionale. Ci sono però alcune differenze tra i due modelli: in Israele le liste sono bloccate ed esiste una soglia di sbarramento al 2%, mentre nei Paesi Bassi gli elettori possono scegliere i singoli nomi e non c’è nessuna soglia da superare.
Dopo che la Corte Costituzionale è intervenuta sul precedente sistema elettorale, il cosiddetto Porcellum, il sistema attualmente vigente è sostanzialmente un proporzionale con soglie di sbarramento variabili e la possibilità di esprimere una preferenza, in ampie circoscrizioni.
Questo modello però non piace a nessuna delle principali forze politiche, quindi si è aperta la discussione su una nuova riforma, anche se i tempi per la sua approvazione non sembrano molto brevi.
Negli ultimi tempi, in Italia, si parla molto di riformare il Senato, una delle due camere di cui è composto il nostro parlamento.
Lo stesso governo Renzi ha proposto di trasformare il Senato in un Senato delle autonomie locali, con minori poteri rispetto alla Camera dei deputati. Ma perché esistono due camere e che poteri hanno attualmente?
Fin dalla loro nascita, i parlamenti hanno avuto più camere, ossia più organi assembleari, distinti in una camera alta e una camera bassa.
Il primo parlamento al mondo che ebbe dei poteri reali fu quello inglese che era, ed è tutt’oggi, costituito da una camera dei Lord, che rappresenta la classe nobiliare ed è nominata dal sovrano, e la camera dei Comuni, che era espressione della borghesia e, a partire da un certo momento, cominciò ad essere eletta dal popolo.
Con l’avanzamento del processo di democratizzazione, il senso delle due camere è cambiato: la camera bassa ha cominciato ad essere espressione della nazione nella sua interezza e del principio della sovranità popolare e la camera alta ha iniziato a rispondere al principio dell’autonomia degli enti locali o degli stati federati. Anche in Italia è così, seppur in modo attenuato: l’articolo 57 della costituzione stabilisce che la nostra camera alta, il Senato della Repubblica, è eletto “a base regionale”, mentre l’articolo 56 prevede che quella bassa, la Camera dei Deputati, sia eletta “a suffragio universale e diretto”.
Se ci sono due camere, come si dividono tra di loro i compiti da svolgere?
L’Italia è l’unico paese al mondo a prevedere un bicameralismo perfetto o paritario. Ciò significa che le due camere hanno esattamente gli stessi poteri. Tutte le decisioni devono essere prese insieme da Camera e Senato.
In tutte le altre democrazie, vige invece il bicameralismo imperfetto, in cui le due camere hanno funzioni differenziate: la camera bassa è quella che ha il potere più ampio, mentre la camera alta ha delle funzioni minori. Per esempio, il compito di dare la fiducia al governo (cioè la facoltà di decidere della sua vita o della sua morte) spetta solo alla camera bassa. Inoltre, spesso la camera alta non influisce nel processo di formazione delle leggi, se non con dei pareri o con la possibilità in certi casi di chiedere un riesame delle decisioni prese dalla camera bassa.
Allo stesso tempo, la camera alta può essere dotata di poteri di raccordo tra lo stato e le autonomie locali o gli stati federati, in modo da garantire un equilibrio tra gli organi centrali e quelli periferici.
Ma il modello bicamerale non è l’unico esistente. È vero, è quello adottato dalle democrazie più popolose, ma il maggior numero di parlamenti al mondo è monocamerale: una sola camera detiene tutti i poteri. Anche in Europa, alcuni paesi come la Grecia, il Portogallo o la Danimarca hanno scelto questo sistema.
Un pregio del monocameralismo è quello di rispecchiare il principio affermato con la rivoluzione francese dell’indivisibilità della sovranità popolare.
Tra le ragioni, invece, che giustificano il bicameralismo vi è quella di evitare la concentrazione di potere in un solo organo collegiale creandone un secondo che faccia da contrappeso. Inoltre, l’esame da parte di due camere, garantisce alle leggi una maggiore ponderazione che dovrebbe assicurare una qualità legislativa più alta.
Ma questo meccanismo rischia di rendere più lento l’iter legislativo o a creare dei gironi danteschi, come avviene in Italia con la cosiddetta “navetta”, ossia il procedimento che costringe un progetto di legge a fare avanti e indietro tra Camera e Senato finché non viene approvato nello stesso identico testo.
Scopri cosa prevede la riforma del Senato che ha proposto Renzi.
Negli ultimi anni, nel cercare le cause di una delle peggiori crisi economiche di sempre, molti le hanno individuate nell’euro. Da allora, economisti e politici si sono divisi in pro e contro. Vediamo insieme come è nata questa moneta, quali sono i suoi problemi e se è possibile tornare alle vecchie divise nazionali.
L’euro nasce nel 1992 con il trattato di Maastricht, che stabilisce alcuni parametri che i paesi della cosiddetta eurozona avrebbero dovuto rispettare, tra cui il famigerato rapporto deficit/Pil al 3%. L’euro entra in vigore come valuta virtuale, ossia solo per i pagamenti elettronici, il 1° gennaio 1999. Da quel momento viene fissato il tasso di cambio con la lira: 1 euro sarebbe stato pari a 1936,27 lire. Dal capodanno del 2002, le monete e le banconote vere e proprie entrano in circolazione insieme alle lire. Questa convivenza non dura molto: dal marzo 2002 l’euro è l’unica moneta che può essere usata.
Inizialmente i paesi ad aderire all’euro sono 11 dei 15 membri dell’Unione Europea. Oggi sono saliti a 18 su 28.
A stampare la cartamoneta e a gestire il tasso ufficiale di sconto dell’euro è la Banca Centrale Europea, attualmente guidata dall’italiano Mario Draghi.
Vediamo ora quali sono i vantaggi e gli svantaggi, i pregi e i difetti dell’euro.
La principale ragione per cui l’euro è stato creato è che avrebbe permesso una maggiore integrazione europea.
Ma se è davvero tra le ragioni della crisi economica, ha anche favorito l’euroscetticismo che oggi dilaga.
L’euro ha permesso di creare un’alternativa al dollaro nel commercio internazionale, togliendo alla moneta americana il potere di fare il bello e il cattivo tempo sul mercato mondiale.
Inoltre, l’euro ha permesso di stabilizzare l’inflazione (cioè l’aumento dei prezzi) e, in un primo momento, ha abbassato i tassi di interesse sul debito pubblico.
Anche se, a partire dal 2011, gli altissimi valori dello spread, ovvero la differenza tra il tasso pagato sul debito italiano rispetto a quello pagato sul debito tedesco (quello più virtuoso nell’eurozona), è stato uno degli indicatori della crisi dei debiti sovrani.
Infatti, secondo molti, l’euro ha scatenato la crisi economica perché è una moneta unica per 18 economie diverse. E ciò è un problema dal momento che, se le economie più forti esportano di più verso le economie più deboli, queste ultime non possono ricorrere alla svalutazione del tasso di cambio della propria moneta nazionale e quindi sono costrette a ridurre i salari e tagliare il welfare.
Altri affermano però che il non poter più ricorrere alle svalutazioni monetarie spinge il paese a puntare sull’innovazione e sulle riforme, che nel lungo periodo sono l’unico fattore che fa crescere un paese.
Dall’altra parte, invece, si afferma che l’euro renderà i paesi del Sud Europa sempre più poveri e quelli del Nord sempre più ricchi. Ciò accade perché eurolandia non è un’Area Valutaria Ottimale, poiché non c’è mobilità dei fattori produttivi (è difficile che masse di lavoratori migrino all’interno dell’unione), non c’è convergenza dei tassi di interesse e tanto meno c’è integrazione fiscale (ovvero regimi di tassazione uniformi con redistribuzioni territoriali di ricchezza, come avviene in Italia tra il Nord e il Sud).
Alcuni però contestano che se i paesi del Nord Europa, come la Germania, rispondono bene alla crisi, è perché loro, a differenza dei paesi del Sud, hanno fatto le riforme necessarie, come quella del mercato del lavoro.
Facendo leva sui problemi legati all’euro, alcuni chiedono di intraprendere la via dell’uscita dalla moneta unica e di ritornare alle monete nazionali oppure adottare due monete, una per il Nord e una per il Sud Europa.
Ciò restituirebbe agli stati il potere di svalutare la propria moneta per incentivare le esportazioni.
Allo stesso tempo, però, le importazioni diverrebbero più costose, comprese quelle delle materie prime, comportando costi molti più elevati per le imprese nazionali e per i consumatori, che vedrebbero salire i prezzi dei beni di consumo, a causa di un aumento dell’inflazione.
D’altro canto, l’Italia riacquisterebbe la sovranità monetaria. Svincolandosi dal trattato di Maastricht, potrebbe attuare delle politiche in deficit e violare il celebre 3%; mentre Banca d’Italia si riprenderebbe il potere di controllare la politica monetaria e di comprare i titoli del debito pubblico.
Alcuni fanno però notare che una quota del debito rimarrebbe in euro e sarebbe più costosa da ripagare. Mentre ripudiarla sarebbe impensabile poiché, dal giorno dopo, i mercati internazionali ci volterebbero le spalle e nessuno acquisterebbe più titoli del nostro paese.
Ma il pericolo più grave dell’uscita dall’euro sarebbe la corsa agli sportelli che si verificherebbe non appena i risparmiatori avessero il minimo sentore di ciò che potrebbe succedere. Tutta la popolazione andrebbe in banca a ritirare i propri euro o a trasferirli all’estero prima che vengano trasformati in lire di minor valore. E anche i titoli del debito pubblico sarebbe venduti in massa, mandando il bilancio pubblico in default, in fallimento.
Per evitare tutto ciò, l’uscita dall’euro dovrebbe essere fatta all’improvviso e nel giro di pochissimo tempo.
I fautori della permanenza nell’euro propongono alcune soluzioni alternative all’uscita dalla moneta unica come la condivisione di parte del debito degli stati, una banca centrale che possa acquistare i titoli dei paesi membri, un quadro fiscale unico e, in sostanza, una maggiore integrazione europea. Ciò resta però altrettanto difficile in un contesto come quello attuale.
Nell’agone politico, le diverse forze non hanno tardato a prendere posizione sull’euro e sull’ipotesi dell’uscita dalla moneta unica.
Quasi tutti i partiti principali si sono schierati per la permanenza nell’unione monetaria, proponendo però soluzioni alternative come l’acquisto da parte della Bce dei titoli di stato.
Ad appoggiare l’ipotesi dell’uscita dall’euro sono invece Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega Nord, che lo ribadisce anche nel suo simbolo.
Il Movimento 5 Stelle invece propone da tempo un referendum sulla permanenza nell’euro, anche in modo da favorire il dibattito a riguardo.
Si dice che questa sia la prima campagna elettorale europea in cui si discute davvero di temi europei. In realtà si parla solo di Euro e dei compiti e castighi che l’Europa ci assegna. Ma il funzionamento dell’Unione Europea è sconosciuto a molti.
Dal 1979, i cittadini dell’unione sono chiamati ad eleggere il parlamento europeo. Questa definizione è però fuorviante dal momento che il parlamento dell’unione non assume le decisioni da solo.
Quello europeo è l’unico parlamento al mondo che non ha il potere di fare proposte di legge. Questo compito spetta alla Commissione che crea le proposte di legge e le invia al Parlamento Europeo e al Consiglio dell’Unione Europea, che le devono approvare nello stesso testo.
La commissione europea è il governo dell’unione, il presidente della commissione è scelto dal Consiglio europeo. Egli dovrà poi nominare i commissari (il corrispettivo dei ministri) e ottenere la fiducia sia del Consiglio dell’Ue sia del Parlamento.
Il Consiglio dell’Unione Europea è l’organo che riunisce i ministri dei 28 stati membri della materia in discussione.
Il Consiglio dell’Ue non è da confondere con il Consiglio europeo, che è l’organo che riunisce i capi di stato o di governo di tutti i paesi membri ed è il vero motore dell’unione in quanto stabilisce le priorità politiche, specie quelle volte a favorire l’integrazione, e non si deve confondere nemmeno con il Consiglio d’Europa, un’organizzazione esterna all’Unione Europea che promuove i diritti umani.
Dal 22 al 25 maggio si tengono in tutta l’unione le elezioni per scegliere i 751 membri del nuovo parlamento.
In Italia, le urne apriranno domenica 25 maggio dalle 7 alle 23. Il sistema elettorale italiano per il parlamento europeo è di tipo proporzionale, quindi i 73 seggi spettanti all’Italia, saranno ripartiti in base ai voti presi da ogni partito che abbia superato la soglia del 4% a livello nazionale. Il territorio italiano è diviso in 5 circoscrizioni: nord-ovest, nord-est, centro, sud e isole. In ciascuna di esse, ogni partito presenta una propria lista di candidati, tra cui l’elettore può esprimere fino a 3 preferenze e, questa è la novità di questa tornata elettorale, almeno una deve essere di sesso diverso dalle altre, pena l’annullamento della terza preferenza.
I partiti che si presentano alle elezioni europee sono quelli nazionali e, una volta eletti, confluiscono in raggruppamenti formati con i partiti degli altri paesi.
Nell’emiciclo del parlamento europeo, a farla da padroni sono la sinistra e la destra europee: il partito di Socialisti e Democratici, che ha aggiunto quest’ultimo termine al proprio nome proprio per accogliere il Partito Democratico italiano, e il Partito Popolare Europeo, in cui convergeranno Forza Italia, Nuovo Centro Destra e Südtiroler Volkspartei. Al centro troviamo l’Alde, i liberali europei, per i quali si presenta in Italia Scelta Europea, una lista di cui fanno parte Scelta Civica, Fare per fermare il declino e Centro Democratico. Nell’ala sinistra abbiamo anche i Verdi, il cui rappresentante italiano è Green Italia, e la Sinistra Unita, per la quale nel nostro paese si presenta la lista L’Altra Europa con Tsipras, promossa da alcuni intellettuali e partiti della sinistra. Alla destra del Ppe, invece, ci sono i conservatori, gli Euroscettici, in cui troviamo la Lega Nord, e il gruppo dei “non iscritti”, in cui sono presenti gruppi che non si riconoscono nelle altre formazioni e sono spesso anch’essi euroscettici. Nei “non iscritti”, una sorta di gruppo misto europeo, probabilmente confluiranno il Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia.
Per la prima volta, votare per un partito significherà votare anche per il candidato presidente alla Commissione europea che quel partito propone. I candidati si sfideranno in un confronto tv in Eurovisione il 15 maggio, condotto da Monica Maggioni, direttrice di RaiNews24.